Scritti per adulti


Prologo – Poco più che d’estate (pag.9)

racconto

Ecco, ci siamo.
Non sarebbe lo stesso se abbandonassi questo spazio sulla scogliera.
Non lo farò.
Sparpaglio a terra le fotografie e ci ritrovo le immagini di allora. Delfini, facciate di case colorate, tegole, portoni, radici di oleandri, un’agave carnosa. E poi profili e primi piani, occhi stretti, per la luce intensa, occhi stupiti.
Il sole sta tuffandosi nel mare, ed è bellissimo osservarne i contorni, i riflessi in acqua. Tra poco sarà notte, una notte senza luna. La migliore delle notti per ascoltare il richiamo, il suono lamentoso delle berte.
Tante volte ho atteso qui, in questo punto preciso, che si pronunciassero, che si chiamassero tra loro e mi coinvolgessero nei loro dialoghi, come quella prima volta.
Allora metto via questo numero infinito di scatti e aspetto.
Con le ginocchia piegate, mi abbandono al ricordo di quella che fu l’estate dei miei quattordici anni e lo farò utilizzando la mia stessa voce, quella voce di allora che iniziava a cambiare, ricorrendo a quel linguaggio semplice che mi caratterizzava.
Non ero un gran parlatore, forse non lo sono neanche adesso, ma avevo forte il desiderio di scoprire il mondo camminandoci sopra, con le mie sole gambe.


Lui, lei, una notte d’estate.

racconto

C’era la luna in cielo e lei era lì, a tenere conchiglie in una mano e a scostarsi una ciocca di capelli con l’altra. Lo aveva chiamato e lui le si era seduto accanto, timido, a dondolare il corpo. “Sei carino” gli aveva detto con un sorriso inclinato e sfiorandogli una spalla. Oltre la roccia, il faro illuminava triangoli di mare e di cielo. Tutto intorno il buio. Lui era attratto da questa ragazza che lo tratteneva con gentilezza. Per mano avevano disceso le scale tra cespugli selvatici e frutti. Sull’ultimo gradino lei aveva lasciato la presa, s’era tolta le scarpe e aveva iniziato a saltellare contenta. Il vento aveva spettinato i suoi capelli e sollevato la gonna leggera. Quando s’era accorta di lui che la fissava immobile, gli si era avvicinata e l’aveva afferrato per un gomito. “Vieni, che fai lì?” L’aveva disteso e poi anche lei supina, con le teste a toccarsi. Avevano guardato il cielo in silenzio. Lei indicava il grande carro, lui lo cercava tra miliardi di stelle. Poi s’era voltato a guardarle il profilo: una delicata miniatura, stagliata nell’oscurità, finché un brivido l’aveva colto. Prima un minuscolo fremito elettrico, poi una scarica improvvisa. Sapeva cos’era, era già successo un milione di volte, ma non voleva accadesse ora. Irrigidito, aveva urlato e poi, né rapida, né lenta la scossa l’aveva trafitto e attraversato. Con la luce che precede l’alba lui s’era svegliato. Aveva guardato intorno con gli occhi socchiusi, la testa pesante e un rivolo di saliva sul mento. Lei, bella, gentile, sorridente, senza nome, non c’era più. Forse l’aveva sognata.